
La concentrazione della circonferenza
La concentrazione della circonferenza
Un testo di Celeste pubblicato in occasione della mostra Dress Code di Giuseppe De Mattia
Il protagonista di un romanzo di Tiziano Scarpa di qualche anno fa, Il brevetto del geco, è un artista milanese di trentanove anni deciso a mettere fine alla propria carriera mai decollata. Depresso, ridotto sul lastrico, nei ventotto metri quadri del suo monolocale di Milano, Federico Morpio si ritrova a fare i conti con anni di rinunce, una convivenza andata in frantumi e una collezione di gesti dettati dalla frustrazione e dal risentimento. «Che cosa ne sarebbe stato di lui, senza l’arte? Era una domanda a cui era impossibile rispondere. Senza l’arte non si sarebbe ridotto al fallimento. Ma, d’altra parte, si sarebbe disconnesso dalla realtà. Non aveva alternative. All’infuori dell’arte, non riusciva a trovare un motivo per stare attento alle cose» . Nel pieno del proprio tracollo esistenziale e finanziario, tuttavia, l’improvvisa malattia del padre gli presenta una nuova prospettiva lavorativa. Morpio va a vivere nella sua casa e diventa il suo badante. La sua quotidianità cambia radicalmente. Durante uno dei pomeriggi dedicati all’accudimento dell’infermo, Morpio carica il cestello della lavatrice di panni sporchi e si siede davanti all’oblò, come fosse davanti a un televisore. La lavatrice è un cervello in grado di soppesare il proprio carico interno, di leggersi dentro, e stabilire il tempo delle operazioni; ma è anche bocca e ano insieme, perché l’accesso e l’espulsione coincidono nella stessa apertura; e poi è anche intestino, poiché è in grado di separare lo sporco dalla materia processata al suo interno, e digerirlo. Dalla sua condizione di auto-esiliato dell’arte, lo spettacolo del lavaggio automatizzato è un’esperienza rivelatrice del suo rapporto con la creazione artistica. Il movimento vorticoso della centrifuga apre all’intuizione più stupefacente: la velocità centripeta del cestello, spingendo il bucato ai bordi delle sue pareti, lo fa sparire come se non ci fosse più. «L’esistenza spinta al massimo coincideva con l’inesistenza» . Morpio si interroga se, così come la centrifuga schiaccia i tessuti ai confini della propria circonferenza, schizzandoli all’esterno in una espansione contenuta, allo stesso modo sia possibile l’esercizio di un pensiero che non lavori per concentrazione, attraverso un movimento rivolto all’interno, bensì per espansione, o meglio, per circonferenziazione. Spingere la materia ai lati e fare il vuoto al centro, girargli attorno, per poter vedere. È possibile creare delle opere in cui pensiero e sguardo agiscano allo stesso modo? Che «aderiscano potentemente addosso alle circostanze» in cui si trovano? Se Federico Morpio apprende una lezione di estetica dal programma di funzionamento di una lavatrice, l’artista Giuseppe De Mattia, invitato a partecipare al programma espositivo di LAVAPIU, decide fin da subito di impiegarla nel suo intervento, intitolato Dress code. Il protagonista del romanzo, di fronte alla macchina, si interroga sulla natura del proprio fallimento: è mancanza di talento, la sua, oppure semplicemente non è stato in grado di intessere le giuste relazioni? Lo stupore dellə artista che per la prima volta legge il romanzo di Scarpa sta, in parte, nel ritrovare i pensieri che avrà affrontato almeno una volta – ma probabilmente molte di più – in quelli del personaggio. Federico Morpio è una caricatura letteraria non più di quanto non lo sia il mondo dell’arte contemporanea in carne e ossa. Eppure la frustrazione, la sensazione di collocarsi in una posizione di lateralità rispetto alla Storia, alle cose che accadono, secondo Maurizio Ferraris è il sentimento dominante dell’umanità del nostro tempo. Non solo nel piccolo, egoico, autoreferenziale mondo dell’arte. Nel corso della sua attività più che decennale, Giuseppe De Mattia torna sulle dinamiche e sulle implicazioni del mestiere di artista – tutte efficacemente condensate nel personaggio de Il brevetto del geco – come “la necessità di vendere ad ogni costo le proprie opere, l’accusa reciproca di plagio tra gli artisti, il timore della truffa che soggiace ad ogni acquisto di arte contemporanea ”. Nel 2019, nella mostra “Esposizione di frutta e verdura” presso la galleria Matèria di Roma, mette in scena la parodia di un mercato ortofrutticolo come metafora della fiera d’arte, in cui frutta vera e frutta di ceramica rivelano la propria differente natura solo nei giorni successivi all’opening, con il deperimento degli ortaggi. Nell’opera di De Mattia il mercato sembra coesistere nella duplice forma di luogo di affezione dell’infanzia trascorsa al Sud negli anni Ottanta, ma anche nella sua variante meno nobile di mercato nero. Ad esempio in Ladri di piastrelle (2022), l’installazione concepita negli spazi di OPR Gallery a Milano, in cui replica una decorazione ceramica di azulejos portoghesi, oggetto di un mercato illegale da dare in pasto ai turisti delle città iberiche, pensati per essere venduti al pubblico a un prezzo accessibile, decretando anche lo smembramento dell’opera. In Dress code il mercato rionale funziona anche da punto di contatto essenziale dell’artista con il territorio con cui per la prima volta si trova a lavorare, Teramo. De Mattia si fa accompagnare dallə curatorə, il giorno prima dell’opening, al mercato del paese limitrofo, per acquistare capi usati da impiegare nella performance. I vestiti devono essere necessariamente recuperati da venditori ambulanti poiché non già puliti, come quelli nuovi di negozio: i capi vengono infatti lavati-digeriti dalla lavanderia a gettoni messa in funzione dall’artista durante la performance che, subito dopo, li stira, li assembla in diversi outfit e li ripone in una busta, con tanto di cartellino. Ogni abito confezionato viene messo in vendita, così come per Ladri di piastrelle, a un prezzo economico, per ribadire il carattere anti-elitario dell’arte di De Mattia: «Se un artista ti piace è giusto che tu possa possedere almeno una sua opera ».
Ogni vestito impacchettato è un personaggio, un costume, un ritratto, un quadro. Ogni multiploprodotto non rientra propriamente nella categoria estetica del ready-made, poiché prevede un intervento di accurata rigenerazione dell’oggetto. Inoltre, l’operazione dell’artista non implica una defunzionalizzazione del prodotto di consumo, non ne decreta l’irreversibile ingresso nella sfera dell’arte come oggetto sollevato dalla propria funzione, perché nessuno vieta ai collezionisti di indossare gli abiti una volta acquistati. Con Dress code, De Mattia sembra rispondere affermativamente alla domanda di Morpio sul pensiero per espansione, che segue il movimento della centrifuga, per creare un’esperienza artistica potentemente aderente alle circostanze in cui si trova. Le opere che nascono dalla performance al mercato prima e nella lavanderia poi, sono found objects processati, in cui il discrimine tra opera d’arte e bene di consumo manifesta tutta la sua fragilità e inconsistenza. L’apparentamento tra opera d’arte e merce è qui ancora più evidente. Esso è motivato non dal valore d’uso degli indumenti (per il fatto cioè di rimanere utilizzabili), ma piuttosto per il loro valore simbolico. Come evidenzia Emanuele Coccia ne Il bene delle cose, la qualità di una merce è determinata dal significato simbolico che le persone le attribuiscono, ed è tale carica significante a rendere le cose passibili di scambio . Centrale diventa allora l’attivazione da parte dell’artista attraverso una compra-vendita a prezzi popolari, di una possibilità di relazione con un pubblico – come quello di LAVA PIU – non composto propriamente da collezionisti. Un pubblico che, attraverso l’acquisto, è messo nella condizione di riconoscere il valore dell’operazione, investendo del denaro. L’opera, proprio come qualsiasi merce, ha valore in quanto inserita in un sistema di relazioni e di scambio. «Una comunità pura e assoluta di uomini senza le cose non è mai esistita e non esisterà mai: è nelle cose e attraverso le cose che gli uomini possono incontrarsi» . L’umanità è sempre esistita attorno a dei beni, in luogo di un mercato di circolazione delle merci. L’opera d’arte non è estranea a questo discorso. Da un altro punto di vista, a venir meno è la mediazione tradizionale della galleria d’arte che, come solleva l’artista, spesso spinge i collezionisti a comprare non in quanto motivati dall’interesse per le opere, ma piuttosto dal prestigio delle gallerie stesse, veri e propri brand di beni di lusso. Infine, per altri versi, De Mattia non fa altro che mettere in evidenza le dinamiche proprie del commercio dei beni e, in particolare, del mercato dell’arte: l’artista, lə creativə, lə influencer, è colui o colei che prova sempre a venderti qualcosa, anche quando non lo sta esplicitamente dichiarando. De Mattia invece lo mostra, non lo nasconde, anzi ne fa il centro della sua opera.
NON È CHE, SENZA VOLERLO, IO VOLESSI PROPRIO QVESTO? NON È CHE LA MIA ARTE, COSÌ COM’È, CONTA NON PER LE POCHE OPERE CHE PRODUCO, MA PER QUEL CHE MI COSTRINGE A VIVERE ?
Sono le parole che Federico Morpio immagina di scolpire su una lapide. A noi viene da chiederci se invece Giuseppe De Mattia potrebbe mai creare una variante di questa domanda che suoni più o meno così:
“NON È CHE, SENZA VOLERLO, IO VOLESSI PROPRIO QUESTO? NON È CHE LA VITA, COSÌ COM’È, CONTA PER LE OPERE CHE MI COSTRINGE A PRODURRE?”