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Tifiamo Armageddon di Fabio Giorgi Alberti

Exhibitionism
Scritto da Giulia Gaibisso in occasione di Tifiamo Armageddon di Fabio Giorgi Alberti

Tra i lavori che svolgo per sopravvivere, e di cui farei felicemente a meno, c’è la revisione di bozze. Tra i progetti di cui mi sono occupata, figura un’importante pubblicazione dedicata al futurismo.

Ammesso che da ogni esperienza si possa ricavare qualcosa di buono (non solo in termini oppositivi, vale a dire di futuro evitamento o graduale astensione da un contesto come da una certa attività), se dovessi sforzarmi di trarre una lezione da questo specifico caso, sarebbe la seguente: non sottovalutare le difficoltà che accompagnano ogni ricostruzione storica, anche quando questa è facilitata dall’abbondanza di fonti, date e testimonianze.

Una panoplia di manifesti, spettacoli e interventi accompagnano ogni discorso sull’avanguardia futurista: innumerevoli riferimenti, titoli e date che richiedono un significativo grado di attenzione e accuratezza nella lettura e verifica dei dati.

La svista, perciò, è sempre dietro l’angolo: nel corso della correzione, per un eccesso di zelo, chiedo conferma della presenza di un punto esclamativo a conclusione di Uccidiamo il chiaro di luna!, titolo del testo redatto da Filippo Tommaso Marinetti e secondo per notorietà solo al Manifesto del Futurismo del 1909.

L’ira dello studioso e autore del saggio revisionato si abbatte su di me, con toni degni dell’intellettuale capofila del movimento più belligerante e interventista della Storia.

Mai sottovalutare l’importanza della punteggiatura.

Riflettendo su Tifiamo Armageddon, il nuovo lavoro di Fabio Giorgi Alberti, ho pensato a questo episodio per una serie di ragioni: prima tra tutte il debito implicitamente contratto da ogni declamazione artistica nei confronti di quella “dinamica e sinottica” futurista [1], dalla quale sembra in parte derivare l’immaginario e la velata irruenza che connotano diverse azioni dell’artista, secondo poi il ruolo che il segno di interpunzione riveste nel contesto del progetto.

Dipinto sulla maglietta da lui indossata nel corso della performance, il segno enfatizza la sensazione di imminente catastrofe suggerita dal toponimo neotestamentario assunto a titolo e citato nell’Apocalisse di Giovanni (Ap. 16,16): un luogo che, per antonomasia, rimanda alla battaglia tra Bene e Male, e di conseguenza, alla Fine.

Il discorso pronunciato, tuttavia, includendo anagrammi del termine Armageddon, scardina l’univocità di senso generalmente associata alla parola, proponendo sostantivi, aggettivi e verbi che espandono il suo campo semantico e, di conseguenza, le suggestioni prodotte sull’immaginazione: tra essi, per esempio, mondare e dragone evocano senza dubbio la purificazione promessa dalla fine dei tempi e il mostruoso che vi partecipa (Ap. 16,13). Amando, grano o aroma introducono invece una prospettiva sensoriale e generativa rivolta al futuro, come a voler in parte mitigare l’angoscia generata dalla situazione.

È questo disorientamento prodotto dall’espressione, questa attribuzione di un potere taumaturgico alle parole, che credo chiarisca il tributo da parte di Giorgi Alberti a un altro celebre precedente storico-artistico: Karawane, il poema recitato da Hugo Ball nel 1916 al Cabaret Voltaire di Zurigo [2]. Se è vero che in quest’ultimo, rispetto a Tifiamo Armageddon, a essere declamate erano delle onomatopee, ‘poemi senza parole’ simili a una cantilena, cionondimeno

l’intenzione e la finalità di entrambe le azioni risulta condivisa: ascendere, trasformare il mondo per mezzo di formule magiche, come si confà a un sacerdote o a un mago.

Dotato di un copricapo-megafono, che ha l’evidente compito di amplificare il suono della sua voce e che ricalca le forme dell’abito di scintillante cartone blu indossato dal dadaista Ball, l’artista indirizza il movimento di dieci spettatori selezionati per partecipare alla performance. Vestiti con magliette recanti ognuna una lettera, è a loro che si affida per comporre e materializzare i già citati anagrammi, fino all’apparizione della parola che titola il lavoro.

In tale affidamento al pubblico si cela, a mio avviso, qualcosa di simile a una resa, che azzera ogni tentativo di perentorietà e che rivolge la stessa violenza dell’Apocalisse contro chi la invoca.

Mi piacerebbe, infatti, poter leggere nel compimento dell’azione, come nella sua enunciazione finale, una spinta sovversiva, alla maniera futurista, situazionista o accelerazionista, ma tutto sembra ridursi a una disfatta, un senso di impotenza che credo incarni più in generale quello di ogni artista alle prese con gli eventi (veramente catastrofici) del nostro presente.

Cosa può l’arte di fronte a tanta distruzione?

Quale esito produce ogni rivoluzione, culturale o politica che sia?

La risposta è contenuta nella parola che precede la Fine, un verbo plurale ripetuto tre volte a conclusione della prima strofa di Trafitto, brano dei CCCP: tifiamo rivolta, tifiamo rivolta, tifiamo rivolta.

«Conosciamo tutti la sconsolante deriva di Giovanni Lindo Ferretti…» mi dice Giorgi Alberti.

C’è tuttavia, nella stessa canzone, un “distico” che, letto alla luce di questa sconsolante deriva (comune d’altra parte a molti intellettuali in età senile), risulta profetico, non solo per il suo interprete, ma anche nei riguardi di questa civiltà, le cui idiosincrasie sono ormai talmente evidenti da disfare ogni certezza di giustizia e uguaglianza:

Mi ricordo di discorsi belli tondi e ragionevoli
Belli tondi e ragionevoli mi ricordo di discorsi

Quale soluzione prospettare, alla luce della completa crisi?

La domanda non ha risposta, il problema pare non avere soluzione.

Rassegnarsi e disertare o combattere per reincantare il mondo?

Come ogni opera d’arte, la performance di Giorgi Alberti illustra posizioni e sentimenti del suo ideatore: mentre lo immagino recitare il testo, avverto già il disagio di chi, come me, si sente inerme, inadeguato o incapace a reagire.

Eppure ci troviamo ad assistere al suo nuovo lavoro, prodotto da questa precisa condizione, e a chiederci quali urgenze si celino in quel punto esclamativo.

Mai sottovalutare l’importanza della punteggiatura.

 

Giulia Gaibisso

[1] F.T. Marinetti, La declamazione dinamica e sinottica, Milano, 11 marzo 1916.
[2] «…Then I noticed that my voice had no choice but to take on the ancient cadence of priestly lamentation, that style of liturgical singing that wails in all the Catholic churches of East and West. I do not know what gave me the idea of this music, but I began to chant my vowel sequences in a church style like a recitative… Then the lights went out, as I had ordered, and bathed in sweat, I was carried down off the stage like a magical bishop»: H. Ball, Flight Out of Time, ed. by J. Elderfield, University of California Press, 1996.